La storia e il futuro delle relazioni umane da quelle interpersonali a quelle planetarie è esemplificata in modo brillante sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, dove il buon samaritano offre carità onesta e spontanea avulsa da qualunque precetto religioso o pregiudizio sociale. In questa parabola due persone su tre si dimostrano indifferenti alle sofferenze umane. Come dire due terzi del mondo. Questa è la brutta notizia. Quella bella, quella da raccontare, consiste invece nel gesto del nostro buon samaritano. Essa è il paradigma della carità. Vi si individua senza dubbio quel quid della relazione d’amore che in definitiva è quello che il nostro papa sta cercando semplicemente di esprimere nel suo magistero soprattutto con la Fratelli tutti e la Laudato si’.
Francesco usa l’aggettivo “integrale” per definire l’ecologia perché occorre andare oltre la semplice preoccupazione “verde” e considerare ecologico anche l’ambito delle relazioni fra uomini. “Integrale” è anche il gesto del buon samaritano che non si limita a una fugace elemosina ma si rende disponibile anche a rifondare l’eventuale eccesso di spesa per le cure di del povero. “Integrale” è infine l’aggettivo usato sessanta anni fa anche da Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris.
Di estrema attualità, la locuzione “disarmo integrale” [1] richiama a qualcosa che investe lo spirito degli uomini: “La pace non è soltanto uno stato di relazioni tra Paesi: concerne tutti i livelli dell’esistenza sociale, fino nell’intimo di ogni persona[...]”. [2]
È dunque in questo luogo “intimo” che occorre radicare la pace, o se vogliamo il quid della carità. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico l’uomo incontra il suo simile, qui la prossimità può diventare aggressione, sofferenza, indifferenza, amicizia. San Francesco, che aveva ben radicato nel cuore il senso della connessione integrale con l’universo e quindi il senso della vera pace, si racconta che riuscì ad ammansire un lupo e ne ricavò un patto di tregua e di reciproco aiuto fra esso e gli abitanti Gubbio. E noi? Come affrontiamo chi ci minaccia? Con il dialogo? Intendiamo disarmare con altre armi?
Da qui il terribile contrasto nell’immaginario collettivo tra la figura del lupo e dell’agnello! Chi ha avuto la fortuna di notarne uno tra i pascoli potrà rimanere sorpreso dalla tenerezza che è in grado di esprimere. Non una tenerezza sdolcinata, ma il rivelarsi di un senso di mancanza di difesa, di smarrimento, di disponibilità totale al sacrificio, di assenza di aggressività. I cristiani hanno fede in un Dio che diventa “agnello”, invocato nella liturgia non a caso dopo lo scambio del segno di pace e prima della Comunione. L’agnello colpisce e provoca con il suo essere inerme, abbiamo appreso infatti che è Abele a soccombere e che l’uomo è lupo per ogni altro uomo.
Cosa augurare allora all’umanità in un momento che ci avvicina alla Pasqua con il sottofondo della guerra? È ancora un augurio di pace quello che l’umanità vuole, l’augurio di quella fratellanza narrata nella strada fra Gerusalemme e Gerico che vorremmo fosse espressa con prepotenza anche nelle strade di Kiev, di Mosca e di tutto il mondo.
Gianni Paternò
[1] Pacem in terris 113.
[2] C.E.R.A.S., Il discorso sociale della Chiesa, Editrice Queriniana, Brescia 1988, p. 285.