Da un paio di mesi, nella nostra Diocesi, come nel resto delle Diocesi italiane, si è avviato il cammino sinodale. Sono stati attivati incontri, commissioni, conferenze, per mettere in campo una serie di iniziative volte a realizzare uno stile di Chiesa sinodale. Ma sembra che tra tanti discorsi sia sfuggita la necessità di individuare il fondamento della sinodalità o, al
più, lo si è sfiorato di passaggio. Questa dimenticanza/omissione, però, è pericolosa perchè rischia seriamente di far coincidere il cammino sinodale con una serie di 'cose da fare', senza incidere profondamente sul rinnovamento della Chiesa. Una sorta di lifting o di maquillage, con il risultato che tutto doveva cambiare affinchè tutto rimanesse come prima (ricordando il Gattopardo)! Sappiamo che il Battesimo è il fondamento della struttura sinodale della Chiesa.
Rosmini (1797-1855), nella sua riflessione teologica, aveva evidenziato il valore del laicato cristiano, fondato sul “sacerdozio comune” dei battezzati. Egli, fra l'altro, con la sua ecclesiologia di comunione, aveva anticipato, più di un secolo prima, alcuni temi, che sarebbero stati sviluppati nel Concilio Vaticano II. Rosmini, ne 'Le cinque piaghe della Santa Chiesa'(1848), denuncia con molta chiarezza che il laicato, nella vita della Chiesa, rimane
relegato a un ruolo secondario e di scarsa importanza, quando non è del tutto emarginato, perchè i pastori trascurano la formazione dei fedeli, non riuscendo nemmeno a immaginare la portata teologica dell'essere laici nella Chiesa. In breve, i sacerdoti e gli stessi vescovi sono “ignari di ciò che è laicato cristiano” e, pertanto, ne impediscono la maturazione. E ciò è
dovuto anche al fatto che il clero ha ricevuto, nei seminari, una scadente formazione teologica, manualistica e sganciata dalle grandi fonti, quali la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa. Pertanto, questi pastori sono incapaci di un grande pensare teologico.
La conseguenza più grave che deriva dalla mancata formazione cristiana dei fedeli laici consiste nel fatto che essi non riescono ad avere la minima consapevolezza “della propria dignità di membri della Chiesa” nella cui vita non si sentono affatto coinvolti perché, come si è soliti dire, nota Rosmini: “le cose di chiesa sono cose da preti”. In tal modo, egli continua, nella Chiesa si innalza “un muro di separazione”, che si palesa già nella Liturgia celebrata in latino, dove i fedeli assistono alle sacre funzioni passivamente “come stranieri spettatori presenti ad una scena”, ovvero come “le colonne del tempio”. Questo distacco, poi, dall'ambito liturgico si trasferiva nell'esperienza ecclesiale quotidiana, dove un clero autoreferenziale, e sempre più lontano “dalla popolare comunanza dei fedeli”, si autocomprendeva come “una casta”, “un patriziato”, chiuso in un ambizioso isolamento. Ma per Rosmini, ignorare la dignità sacerdotale, profetica e regale, che il laico cristiano possiede in forza del suo battesimo, ha delle ricadute negative sulla vita e sulla missione stessa della Chiesa, che sarà privata della preziosa e specifica collaborazione dei laici, che si caratterizza per l'indole secolare.
L'analisi rosminiana ci pone di fronte alla condizione di un laicato in stato di minorità. Un vero rinnovamento della Chiesa, che vuole ritrovare la sua natura sinodale, deve partire dal riconoscimento che tutti i fedeli, in forza del battesimo, sono insigniti del “carattere sacerdotale”, che dà loro il diritto di partecipare, con determinate modalità, a quelli che Rosmini definisce “i sette poteri della Chiesa universale”, finalizzati al servizio comune:
- costituente,
- liturgico,
- eucaristico,
- penitenziale-medicinale,
- ierogenetico,
- didattico,
- ordinativo.
Non si tratta, pertanto, di concessioni paternalistiche della gerarchia ecclesiastica, che affida qualche incarico ai laici, bensì di diritti strettamente derivanti dal battesimo. Non mi posso soffermare, per questione di spazio, ad illustrare ognuno dei singoli poteri. Ma per aver un'idea degli orizzonti entro cui si muoveva Rosmini, accenno al potere “ordinativo”, che riguarda le norme che regolano il governo della Chiesa. Rosmini, nella 'Filosofia del Diritto', afferma: “I semplici fedeli influiscono ed hanno diritto d'influire nel governo della Chiesa in una certa misura e modo determinato”, come riconosciuto dagli stessi pastori. In particolare, “l'influenza che può esercitare ogni semplice fedele nel potere ordinativo della Chiesa” concerne le persone che devono guidare la Chiesa (e Rosmini osserva che anche i laici devono essere interpellati per le nomine dei vescovi), le leggi disciplinari e, infine, i beni posseduti dalla Chiesa. La motivazione profonda da cui scaturisce questa partecipazione la si comprende dalle parole di Rosmini: “il popolo fedele” ha “il senso di Cristo”, ha “un senso delle cose spirituali” (il “fiuto” di cui oggi parla Francesco) e gode, perciò, dell'assistenza dello Spirito Santo.
Pertanto, il laicato, sottolinea Rosmini, non deve essere né “disprezzato”, né considerato “troppo bassamente”. Il riconoscimento pratico di questi diritti dei laici, da parte dei Pastori, e il loro esercizio effettivo, da parte del laicato, contribuirà ad evitare quella dannosa divaricazione tra clero e fedeli, già individuata da Rosmini, come prima piaga della Chiesa e, inoltre, salverà la Chiesa dal grave pericolo del dispostismo ecclesiastico, facilmente in agguato tra le file del clero.
Il sogno profetico di Rosmini, quello, cioè, di un laicato riconosciuto nel suo carattere sacerdotale universale e, pertanto, nel suo ruolo fondamentale nella comunità ecclesiale, è rimasto tale fino al Vaticano II, quando ancora perdurava la concezione dei fedeli assimilati ad un “gregge silenzioso e passivo” (come denunciava, in un suo intervento al Concilio, Mons.E. J. Primeau, vescovo di Manchester), i cui doveri egli sintetizzava pittorescamente con quattro verbi: “credi, prega, ubbidisci e paga”. Il Vaticano II, illustrando la giusta e armonica relazione che deve instaurarsi tra laici e presbiteri, precisa che questi hanno il dovere di “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell'ambito della missione della Chiesa”(P. O. n 9). E a 20 anni dal Concilio, Giovanni Paolo II sottolineava: “La comunione ecclesiale si configura [….] come una comunione «organica», analoga a quella di un corpo vivo e operante […] caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità.
Grazie a questa diversità e complementarietà ogni fedele laico si trova in relazione con tutto il corpo e ad esso offre il suo proprio contributo” (Christifideles laici n.9). E papa Francesco afferma: “Il sensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacchè anche il gregge possiede un proprio fiuto per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”. Perciò i pastori devono porsi in atteggiamento di ascolto sincero del popolo cristiano, secondo lo stile di una Chiesa sinodale. “[…] si tratta -continua Francesco - di un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l'uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7)” (Discorso per il 50 anniversario dell'istituzione del Sinodo dei vescovi, 17 ottobre 2015). Si staglia , così, dinanzi alla Chiesa la figura di un laico adulto, maturo, protagonista e responsabile, senza complessi di inferiorità di fronte al clero. Sorge, però, spontanea una domanda: tutti, clero e fedeli laici, saremo capaci di accettare questa sfida della visione sinodale della Chiesa?
Don Piero Sapienza
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